Una possente messa in scena dell'opera verdiana diretta da Daniel Oren nell'ambito della rassegna "Un'estate da re".
La prima volta che mi capitò di ascoltare Nabucco – avevo più o meno sedici anni – ebbi l’idea che l’energia allo stato puro potesse trasformarsi in musica e che quest’ultima allo stesso tempo generasse energia: tanta fu la carica che quell'opera straordinaria trasmise al mio orecchio di adolescente, a partire dall’incredibile ouverture, strutturata nella classica forma sonata, cui Verdi conferì una qualità musicale tanto cristallina da trasportare l’ascoltatore, anche se inesperto d'opera, in un vortice sonoro; un vortice che coi suoi centosessanta colpi di piatti e grancassa non scade mai nella volgarità o nella banalità, facendo propria la passata lezione del crescendo rossiniano, ancorché rivisto in un’ottica nuova, romantica, coinvolgente. che dalla melodia affidata al flauto e clarinetto (che l’ascoltatore scoprirà poi appartenere al celeberrimo coro Va, pensiero si risolve nell’allegro finale: i cavalli assiri che galoppano all’impazzata alla volta del saccheggio d’Israele.
Indagando la genesi dell’opera risulta chiaro il perché di tanta energia che percorre l’intero capolavoro, finanche nei momenti di più intimistico lirismo: era Verdi che con forza titanica usciva dallo stato di prostrazione in cui il destino l’aveva gettato facendogli perdere a distanza di pochi mesi l’amata moglie Margherita e i due figli piccoli; proprio, crudele scherzo del fato, nel momento in cui adempiva al contratto con la Scala e scriveva la prima (ed unica) opera buffa.
Poi l’insistenza dell’impresario scaligero, la complicità del libretto folgorante e ribelle di Temistocle Solera, le esortazioni del padre-suocero Barezzi e la tempra d’artista furono tutti fattori capaci di rigenerare quella spinta creativa che presto si sarebbe realizzata in Nabucco, il più eschileo dei melo-drammi, in cui presenza e preponderanza in scena del coro fa di questo un vero e proprio personaggio che si contrappone ai protagonisti, tramutandosi nell’anima profonda del popolo levitico oppresso dagli assiri e testimone della conversione che dall’oscurantismo pagano votato al culto di Belo ritrova il verace Dio degli ebrei nel mirabile coro a cappella del IV atto (Immenso Jehova) che di pochi istanti precede la scena conclusiva della morte di Abigaille.
Ciò fa di Nabucco un’opera dalle proporzioni gigantesche, paragonabile forse a quella dei grand opera dei decenni seguenti dell’800, con presenza costante di masse sulla scena la cui persistenza non disperde ma delimita, racchiude l’intimismo che promana dal fiume di musica che Verdi regala dei duetti, terzetti, nel sestetto del secondo atto S’appressan gl’istanti e nelle arie, in verità non numerose, affidate a Abigaille, Nabucco e Fenena, ove chiaro è il tentativo di scavare la psicologia dei personaggi offrendo all’ascoltatore personalità a tutto tondo.
Si scopre che così Abigaille non è una tigre assetata di sangue, ma semplicemente una donna innamorata che forse non sa gestire «la furia di quell’amore»; come Nabucco non è un tiranno, ma il padre premuroso disposto a rinunciare al trono ed a convertirsi per amore della figlia Fenena; la quale è la prima a ritrovare la verace fede per il tramite dell’amore con lo straniero Ismaele.
Un intreccio politico e religioso in cui il sentimento dell’amore è destinato a restare sullo sfondo operando come il sasso sul fondo dello stagno nel muovere le singole personalità al dramma, sino al suo naturale, e quasi scontato, epilogo di conversione generale e pentimento in punto di morte della “cattiva” Abigaille.
In questo dualismo, formato da intimismo e grandiosità, lo spettacolo del Teatro San Carlo messa in scena alla Reggia di Caserta nell’ambito della rassegna Un’estate da re ha scelto di porre l’accento sul secondo aspetto: la necessità di riempire un palcoscenico smisurato con grandi masse corali, la musica all’aperto e la conseguente scelta (di sicuro obbligata) dell’amplificazione ha imposto il sacrificio del cuore più intimo e forse interessante dell’opera, tutto a beneficio di grandiosi effetti speciali, frutto di una regia oltremodo tradizionale che ha regalato la parte visiva di un Nabucco proprio come ciascuno di noi vorrebbe vederlo: le due scale discendenti verso il centro del palcoscenico con disposizione chiastica del coro – coloratissimo nei costumi, davvero ben curati nei particolari – impegnato in un continuo movimento scenico; certo non facile, date le proporzioni del proscenio.
Fra i cantanti, il Nabucco di Leo Nucci (con i suoi 74 anni di età) si rivela il punto di forza della serata: timbro fresco, sicuro, fermo, non una nota sporca od incerta, sicurezza nel centro della voce fanno di questo artista uno dei rari esempi in cui al dono naturale si accoppia l’intelligenza dell’uomo di saper gestire lo strumento fino al punto di poterlo impegnare in una parte tanto pesante anche in età matura (torna in mente il Nabucco di Piero Cappuccilli negli anni ’90 al San Carlo).
La presenza di Leo Nucci sovrasta le prove di Susanna Branchini (Abigaille) e Vincenzo Costanzo (Ismaele); in particolare quest’ultimo esibisce una presenza scenica ed una performance appena sufficienti, non perfettamente in grado di elevare il livello del personaggio, pur nella ristretta parte che Verdi gli affida. Più convincente l’Abigaille della Branchini, anche se ci è parsa in difficoltà nella terribile cabaletta Salgo già del trono aurato e poco incisiva nel fraseggio generale: nel complesso il cesello del personaggio appare studiato con una certa approssimazione, probabilmente in ragione delle scelte di grandeur che l’organizzazione ha voluto conferire all’intero spettacolo.
Abbastanza di maniera anche Zaccaria interpretato da In Sung Sim, che di recente al teatro Verdi di Salerno ha impersonato la parte del padre guardiano nella Forza del destino. Bel timbro di basso, apprezzabile rotondità della voce, ma povertà di accenti per un’imperfetta padronanza della “parola scenica”, che proprio in Nabucco si delinea quale precisa scelta artistica di Verdi, e che diverrà protagonista nei lavori successivi. Bella la voce della Ganassi (Fenena), con l’unico cruccio che la parte affidatale è davvero piccola (Ah, dischiuso è il firmamento) ed il ruolo di secondo piano.
Va riconosciuto al coro (formato dagli artisti dei teatri di Napoli e Salerno) il merito di una performance magnifica: movimenti precisi in scena, perfezione vocale, spettacolarizzazione nelle scene di massa. I cori È Assiria una regina e Va, pensiero, quest’ultimo con tanto di bis cantato tra gli ascoltatori, hanno costituito il reale punto di forza dello spettacolo, sollecitando la potenza trascinante del pubblico; il quale, dal canto suo, è restato disciplinatamente a posto pur a dispetto delle lunghissime pause dei cambi scena, a causa delle quali l’opera è terminata oltre l’una di notte.
Per quanto riguarda la direzione d’orchestra, sembra di poter dire che Nabucco sia l’opera preferita di Daniel Oren, che non a caso la ripropone spesso. In questa esecuzione Oren ha posto in risalto l’elemento ritmico dell’orchestra, talvolta eccedendo negli effetti speciali e in qualche scelta estrosa (non ultime certe sottolineature timbriche degli ottoni ed il costante taglio delle cabalette) che tuttavia nulla tolgono all’artista che nei decenni ha fatto propria una partitura della quale dimostra di saper cogliere ogni sfumatura (notevole l’intreccio dei violini primi e secondi nell’aria di Abigaille Anch’io dischiuso un giorno) che nell’esecuzione casertana non era facile cogliere, proprio a causa del taglio grandioso e possente conferito all’intero lavoro; e di certo l’amplificazione ci ha messo lo zampino.
Gran belle serate queste della rassegna Un’estate da re, nella cornice della troppo poco valorizzata reggia vanvitelliana, forse la reale, unica e verace protagonista di un progetto di rilancio che si spera non resti confinato nel limbo dell’una tantum condito con la spettacolarizzazione di un kolossal che, pur nella gradevolezza generale e nella riuscita dello spettacolo, ha imposto qualche compromesso all’estetica di Verdi.